giovedì 10 maggio 2018

Blog Tour Dark Zone: Liliana Marchesi - Giuseppe Calzi - Daniela Ruggero


In   un   mondo   distrutto   dalla   guerra   tra   classi   sociali,   un   nuovo  Impero   regna   Sovrano.   Un   Impero   costruito   grazie   alle   capacità   di  una   società   progredita,   ma   legato   alle   tradizioni   dell’ormai   lontano  Ottocento. Un    Impero    servito    da    automi    dall’aspetto    umano    e    dalla    pelle  rivestita di cera. Protetta   dalle   fredde   mura   di   un   palazzo   inespugnabile,   in   Russia,  Camille   vive   la   sua   vita   fra   balli   e   ricevimenti,   ignara   di   essere  prigioniera   di   un’utopia.   Contro   il   proprio   volere,   verrà   promessa  al   futuro   Imperatore.   Un   uomo   meschino,   violento   e   incapace   di  amare. Mossa   dalla   disperazione   e   in   cerca   di   una   via   di   fuga   scoprirà  l’esistenza   di   un   sotterraneo   segreto,   dove   troverà   Lui,   sua   unica  possibilità di salvezza. Su quali menzogne è stato costruito l’Impero Sovrano? Cosa c’è fuori dal palazzo?
Vi erano notti in cui gli incubi intrecciati ai ricordi si annodavano intorno alla mia anima fragile impedendole di respirare e sgattaiolare fuori dalla mia stanza abbigliata come un uomo, nascondendo la lunga chioma castano-dorata sotto al cappuccio di una cappa nera, mi aiutava ad andare avanti. Perché... anche se solo per poche ore nel cuore della notte, passeggiando per corridoi deserti riuscivo a far finta di essere altrove, di non aver perso l’amore di mia madre e di non essere la preda più ambita dal figlio di un Sovrano senza cuore.



A ogni passo che facevo in direzione della sala dei ricevimenti, il peso delle gonne che indossavo pareva schiacciarmi a terra. Ovviamente sapevo benissimo che il peso che faticavo a portare non era rappresentato dalle gonne, ma da ciò che provavo dentro di me. Percorrevo il labirinto di corridoi dalle pareti color tortora, illuminato dalle applique a forma di candelabri esibendo il portamento elegante e composto che meglio si addiceva a una signorina, quando in realtà mi sembrava di essere una condannata a morte, con le mani legate e le catene ai piedi.


Era più forte di me. Rinunciare a stuzzicarla voleva dire non godere di quell’espressione indispettita e agguerrita che le illuminava il viso.
E io amavo quel suo lato ribelle. Era irresistibile. Come irresistibile era la morbidezza delle sue labbra che, premute sulle mie, sembravano aver trovato finalmente la pace.
Ora non sentivo più le lame taglienti del freddo su di me, ma una delicata sensazione di calore. Un calore che aumentava e si propagava in me a ogni centimetro di pelle di Camille che le mie mani inarrestabili esploravano. E mentre rendevo il mio sogno reale, capii che non avevo desiderato altro dal primo istante in cui i miei occhi si erano posati su di lei.




Il passato non può tornare, il passato non può essere cambiato. Nemmeno i sogni hanno un tale potere. Eppure i sogni possono cambiare qualcosa di molto più importante: presente e futuro.
Quali nefaste conseguenze si potrebbero scatenare nell’esistenza di un individuo privato della possibilità di sognare?
Gregory Leali vive a New Castle, nel cuore del piccolo e riservato stato del Delaware, Stati Uniti. La sua vita, solo all’apparenza tranquilla e priva di preoccupazioni, in realtà sta sprofondando e qualcosa è sul punto di aprire una piccola porta, dimenticata socchiusa da troppo tempo nella sua testa. E’ qualcosa di terribile, di assolutamente inspiegabile. E’ una sensazione forte, capace di scatenare un terrore impossibile da affrontare, tanto meno da vincere. Ha già provato il sapore sgradevole e oltre modo inquietante di certe emozioni che scavano nella sua personalità, ma quando? Eventi passati tornano in superficie, galleggiano sopra il pelo dell’acqua, come il cadavere di uno sconosciuto che Greg rinviene al Punto, il parco cittadino di New Castle. C’è davvero un sottile filo che lega tra loro momenti lontani della sua esistenza? Nero e silenzio, ecco cosa si nasconde dietro quella maledetta porta. Gregory sa benissimo che chiudere gli occhi e provare anche solo a concepire un nero e un silenzio tali va ben oltre i limiti della follia. Essere avvolti dalla mancanza totale dei sensi e da un vuoto assoluto, eppure pienamente consapevoli e coscienti di sé…
Eventi inspiegabili, una serie di indizi ambivalenti e l’incontro con Michael Russell, personaggio disarmante e per certi versi complice e inquisitore allo stesso tempo, porteranno Gregory all’apertura di una serie di cassetti chiusi a chiave all’interno dalla sua mente, dai quali emergeranno spicchi di ricordi di un passato che pareva perso e dimenticato, come se non fosse mai esistito. L’amico Vince Costello e la nuova vicina di casa, Violet Alnwick, saranno in grado di spezzare le trame di un destino segnato da qualcosa successo al Gregory di un tempo, al bambino che fu Greg?
Nero e silenzio devono essere affrontati, perché questa per Gregory è l’ultima fermata. E l’esito di tutto ciò non può che passare dall’ultimo ricordo, dall’ultimo sogno vissuto, da qualcosa che era stato spezzato ai tempi di un’infanzia lontana. Da un profondo rapporto di amicizia rimosso e cancellato dalla brutalità del destino. La sottile linea che separa vittoria e sconfitta, vita e morte, potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.

L’orina iniziò finalmente a zampillare.
Greg poggiò la fronte al braccio disteso con il quale si reggeva alla parete e il tessuto della camicia gli deterse la fronte imperlata.
Là sotto, il getto per un attimo si arrestò, poi riprese con vigore.
Cominciava ad avvertire uno strano senso di claustrofobia, un fenomeno del quale non aveva mai e poi mai sofferto. Sembrava che il torace gli venisse compresso da un’enorme mano invisibile nell’atto di serrarsi lentamente a pugno.
Inspirò a fondo, cercando di raccogliere quanta più aria gli fosse possibile; fu attraversato nello stesso tempo da un leggero senso di sollievo e da una sensazione profonda e quasi straziante, che gli urlava di andarsene, di portare all’istante le chiappe fuori da lì.
Altro sudore gli bagnò il viso.
Rimase immobile, quasi ipnotizzato da quello stato di latente claustrofobia.
Vattene, corri, non esitare… non un minuto di più…
Non se ne andò, non corse via ed esitò in quella posizione a lungo, probabilmente per qualche minuto. La vescica si era svuotata, ma ora non importava nulla. Continuava a sudare, inspirava ed espirava a ritmo irregolare, con difficoltà. Quel locale gli dava l’impressione di essere delle dimensioni di un minuscolo ripostiglio, un piccolo fazzoletto nel quale soffocare.
Vattene…
Sapeva benissimo che non avrebbe dovuto voltarsi.
Corri e non esitare!
Poco lontano da dove si trovava, sopra ai due piccoli lavandini, c’era lo specchio. E non doveva voltarsi.
Non un minuto di più. Per Dio, non un minuto di più.
Non riordinò pantaloni e camicia, ma con il volto ormai madido di sudore spostò il peso da una gamba all’altra, tenendo il capo chino, e lasciò l’appoggio del muro.
Alle sue spalle si trovava lo specchio.
Lentamente iniziò a voltarsi. Tra l’orinatoio e i lavandini ci dovevano essere non meno di cinque metri, eppure mentre si voltava sentiva la certezza di essere a un nonnulla dallo specchio, come se per incanto quella distanza si fosse dissolta, come se non si trovasse nei bagni del Chrysler Perkins Saloon, bensì in una scatola sempre più compressa.
Continuava a sudare, eppure cominciò anche ad avvertire un principio di brivido corrergli lungo la schiena.
Il senso di claustrofobia non accennava ad allentare la sua invisibile ed energica presa. Ora era davvero a pochi passi dallo specchio e dai lavandini, ma non ricordava di aver coperto quella distanza. Si appoggiò con entrambe le mani a uno dei lavabi e sollevò lo sguardo.
Ed eccolo.
Nello specchio vide il riflesso del suo volto, ma non aveva nulla di umano. La pelle sul lato sinistro era sciupata, pallida, quasi ingiallita come pergamena e accartocciata in prossimità degli angoli degli occhi e della bocca. Vicino all’attaccatura dell’orecchio pareva invece tirata, lucida e quasi gonfia; dava l’impressione che da un momento all’altro potesse lacerarsi e lasciare fuoriuscire del pus. Del lato destro della faccia rimaneva ben poco di riconoscibile. Uno squarcio si apriva dove avrebbe dovuto trovarsi la guancia e dalla lacerazione affioravano i tendini sfilacciati. Un rivolo di sangue scuro e denso, nel quale si mischiava del pus giallastro, gli scorreva da quell’enorme menomazione giù per il mento, via via lungo il collo, raggrumandosi poco oltre il colletto sbottonato. Da quel lato del viso l’occhio aveva perso la sua normale conformazione e sporgeva dall’orbita, come l’occhio di una persona che fosse sul punto di morire per asfissia. I capelli su tutto il cranio erano lunghi, ma sottilissimi e radi, tanto che sulla cute erano ben visibili ampi spazi vuoti. Eppure conservavano un colore castano, sebbene opaco.
Greg era consapevole di ciò che avrebbe trovato specchiato lì di fronte, come sapeva benissimo che nonostante le riflessioni di quella vocina che gli giungeva da dentro
vattene, corri, non esitare… non un minuto di più…
non poteva fare a meno di guardare, non poteva evitare di fissare quella parte di se stesso.
La sua immagine riflessa lo fissava con quegli occhi privi di vita, ma nello stesso tempo profondi, ripugnanti, da togliere il fiato.
Ma non solo. Erano occhi imploranti.

No, Michael Russell non poteva capire. Nessuno poteva capire.


«Da quanto tempo stai andando avanti così?» insistette guardandolo negli occhi.


Gregory cercò di sfuggire a quello sguardo a metà strada tra l’ammonitore e il divertito.
Il brusio del locale sembrava sempre più vago. Il mal di testa si stava trasformando in un ritmico pulsare delle tempie, come quella sensazione strana, ma eccitante, che gli capitava spesso quando era ragazzo, seduto in uno dei carrelli delle montagne russe, lungo la lenta salita che conduceva il convoglio sulla sommità della struttura. Si sentiva come se quel viaggio a tutta velocità, ancorati a un’esile lingua d’acciaio, potesse davvero avere inizio da un momento all’altro.
E se doveva essere, che fosse.
Si aggrappò alla barra di metallo in attesa della discesa da imboccare e rispose: «Un paio di settimane. Forse un mese o giù di lì».
Era possibile continuare a mentire, nonostante i buoni propositi?
Ne seguì una risata distorta da parte di Michael, un suono carico di qualcosa di molto simile allo scherno. Quella risata ebbe l’effetto di dare un altro strattone verso l’alto al convoglio. Greg poteva quasi sentire l’aria tra i capelli, la stessa che da ragazzo lo riempiva di adrenalina e lo caricava d’attesa. Michael lo fissava con quegli occhi scuri e quel volto spigoloso che a Greg davano l’impressione di essere severi e benevoli allo stesso tempo.
«Da quanto?»
«Non lo so esattamente», rispose alzando le spalle.
«Mesi, Gregory? Io credo anni.»
Cosa poteva saperne quello sconosciuto?
«Situazioni come la tua si trascinano per molto tempo. Ma arriva un momento in cui devi prendere una decisione.»
Il volto di Greg era immobile. Sembrava quasi che quell’uomo potesse leggergli dentro.
E se ci fosse passato anche quel tizio prima di lui?
«Era da tempo che non mi accadeva di pensare a qualcosa di così angosciante», disse Gregory mentre vedeva il culmine di quella montagna russa venirgli incontro.
Michael annuì, come per incoraggiarlo a parlare. Alle loro spalle, il vociare della gente, il tintinnio di bicchieri e piatti spostati, il rumore del legno sotto le suole delle scarpe, erano diventati suoni lontani e alieni. Era come se lui e Michael Russell si stessero allontanando.
«Così buio», proseguì Greg nonostante la gola riarsa che gli rendeva difficile tenere un tono di voce normale. «Il nero e il silenzio sono cose impossibili da accettare. Fanno impazzire. All’inizio pensi che sia come chiudere gli occhi ed essere in una stanza buia e priva di rumore…»
Fece una pausa e deglutì, gli occhi fuori dalle orbite. La secchezza in fondo alla gola era quasi dolorosa. Il convoglio era davvero prossimo al culmine. A breve sarebbe arrivato quell’intenso istante di sospensione, il momento in cui la salita termina e si è consapevoli che il mondo sta per iniziare a scorrerti di fianco a una velocità impensabile lungo quella sottile striscia d’acciaio, l’unico vincolo tangibile con il suolo.
L’unico vincolo tangibile con la realtà.
«Niente di più sbagliato. Ti spingi un poco oltre e senti che quel buio e quel silenzio sono neri, sono inconsistenti, non esistono punti di riferimento. Non hai occhi, non hai orecchi; assolutamente nessun odore, il gusto non esiste e quel nero non può nemmeno essere annusato o toccato. Il concetto di tatto non è previsto. Tu non esisti, sei solo parte del nero. Ma sai quale è la cosa che più ti manda in orbita il cervello quando arrivi a quel punto?»
La discesa era iniziata, l’aria in faccia gli toglieva il respiro. Era su una montagna russa infernale.
Si avviò in direzione delle utilitarie, cercando di darsi una calmata, ma non ci riuscì. I suoi passi echeggiarono sul pavimento in cemento e le chiavi che teneva nella tasca dei pantaloni iniziarono a tintinnare al ritmo della camminata. Poi, per non più di un paio di secondi, ci fu qualcos’altro.
Di nuovo quel rumore. A cosa somigliava? Dava l’impressione di essere stato un fruscio o qualcosa di molto simile. O forse qualcosa che grattava. Pareva arrivare da lontano. Una ventina di metri forse, sempre alla sua destra. Era stato un rumore ovattato, appena percettibile. Eppure non era stata la paura a ricrearlo nella sua mente, c’era stato davvero.
Anche le luci sembravano diverse; così come l’aria e gli odori di solito penetranti dell’officina; tutto sembrava diverso, sbiadito.
Prima che potesse muovere un altro passo, il rumore si ripeté.
Fu brevissimo, poi il silenzio.
Il cuore gli tirava scudisciate tanto forti da sembrare che volesse fuggire per conto proprio. Si voltò dalla parte da cui erano arrivati quei rumori e iniziò a indietreggiare, cercando comunque di mantenere campo libero nel caso si fosse trovato nella necessità di correre.
Quando puntò l’attenzione davanti a sé non vide nulla, solo una decina di macchine posteggiate con ordine diligente e disposte su due file.
Fece una manciata di passi camminando all’indietro. Un tanfo improvvisò lo investì, costringendolo a portarsi le mani al volto. Lì dentro sembrava che ci fosse qualcosa di avariato, della carne lasciata a marcire per giorni. Era troppo intenso quell’odore perché nessuno se ne fosse accorto prima, eppure nemmeno uno dei ragazzi dell’officina se ne era lamentato. Non era l’odore acre e ben localizzato di un problema a qualche condotta fognaria o di un pozzetto ostruito da parecchio tempo.
Era piuttosto…
… odore di morte. Odore di putrefazione.
Era lo stesso maledetto odore che aveva avvertito prima di arrivare al Punto, ma molto più intenso. Neppure giù alla pozza, al cospetto del cadavere gonfio e invaso dalle larve, l’olezzo era stato così pungente.
Una certezza lo investì con la violenza di un treno merci. Girandosi avrebbe trovato il cadavere del Punto. Lì a terra, magari con occhi non morti a fissarlo, strisciante e con le carni gonfie e pronte a esplodere, il volto contratto in un ghigno animalesco. Perdere del tutto il controllo era un lusso che non poteva permettersi.
Esitò, ma poi iniziò a girarsi.
Vide qualcosa tra due autovetture.
Cosa diavolo era?
Sembrava il lembo stracciato di una pelliccia sgualcita, con il pelo scorticato e macchiato. Non lo vedeva del tutto, perché era in buona parte nascosto dalla ruota di una Volkswagen bianco avorio.
Una morsa gli strinse il cuore. Gli venne l’improvvisa voglia di piangere, ma riuscì a trattenersi anche se gli costò molta fatica, e con la trachea serrata dal pianto soffocato sul nascere si mosse circospetto.
Aveva addosso una tristezza indicibile e una malinconia profonda, che per una frazione di secondo gli diedero l’impressione di smuovere qualcosa in qualche angolo remoto del cervello.
Quando fu a breve distanza dalla Volkswagen, un’altra manciata di passi laterali gli permisero poco alla volta di mettere a fuoco la scena. L’odore era insopportabile e sembrava aver raggiunto il picco di intensità, colpendolo in pieno come un pugno ben assestato.
Fece una smorfia costernata avanzando ancora di qualche passo.
Non era possibile.
Di fronte a lui, appena sotto alla scocca dell’auto c’era un cane, o per meglio dire, quel che restava di un cane. Doveva essere stato investito, perché la carcassa era ridotta veramente male.
In un futuro non molto lontano il mondo così come lo conosciamo non esisterà più. Le malattie saranno debellate; la morte, il dolore e la sofferenza non faranno più parte della vita. Non ci sarà spazio per l’inquinamento che soffoca i mari, l’aria e la terra. Tutto sarà pace, fratellanza e unione. Nessun crimine violento, nessuna disputa.

Nella perfezione di questo nuovo mondo, tuttavia, un gruppo di ribelli denominato «Nectunia» combatte la sua guerra silenziosa, consapevole che tanta eccellenza cela un’amara verità. Quale prezzo paga in segreto l’umanità al Nuovo Ordine? In che modo dieci uomini e una donna, la «Grande Madre», scandiscono vite, pensieri e passioni di milioni di persone?

In questa perfezione prestabilita e manovrata, potrà l’amore, quello vero e libero, disfare le trama di potere del Nuovo Ordine e ridare speranza all’umanità intera?
Lei mi appoggia un dito sulle labbra. «Siamo nati liberi», dice. Si alza dal letto e si avvicina alla parte. Posa la mano sul gelido muro e come per incanto un pannello si apre. Spalanco la bocca sorpresa. Siamo immersi sott'acqua. I pesci ci passano accanto come se facessimo parte dell'ecosistema. Ho studiato la fauna degli abissi ma vedere questi draghi marini che grazie alla bioluminescenza sembrano enormi lucciole con grandi bocche e strane appendici lungo il corpo mi sorprende e mi spaventa.
«Benvenuta a Nectunia.»
«Dormirai nella mia stanza», mi informa Elisa. «Per ora siamo solo noi due, ma in futuro potrebbero chiederci di ospitare nuovi civili liberati.»
Marco sospira.
«Io condivido la mia camera con altri quattro, non mi hanno chiesto se volevo condividerla con te.»
Avvampo. Lui sembra non accorgersene, posa le labbra sulle mie e mi bacia dapprima con delicata soggezione poi sembra dimenticarsi del luogo in cui siamo e della presenza di Elisa. Mi stringe per i fianchi con una passione nuova e sconcertante. Mi divincolo viola per l'imbarazzo.
Elisa scoppia a ridere.
«Sei impazzito?» protesto.
«Forse», risponde poi si volta di spalle e se ne va.
«Scusami», farfuglio guardano Elisa che al contrario di me sembra serena.
«E di cosa?» risponde. «Coraggio, mentre ti accompagno nella nostra stanza, ti spiego la funzione degli inibitori ormonali che ci somministrano dall'età puberale.»
«Di che cosa parli?»
«Ai maschi e alle femmine è riservato un trattamento diverso, ma il concetto è uguale. Inibendo gli ormoni l'Ordine si assicura che non ci siano coppie che si ribellano alla macchina DNA, che non ci siano figli nati dal ventre materno e tutta una serie di altri effetti collaterali.»

Sono il Generale di un esercito pronto a sacrificare la vita al mio comando, costituito da elementi addestrati a sopportare ogni cosa, la fame, la sete, il dolore e le privazioni.
Sono il Generale di una campagna contro il più grande inganno costruito dal Governo per rendere schiavo il popolo abbagliato dalla perfezione di ogni cosa.
I ricordi dell'epoca antica sono proiettati nelle scuole, nelle chiese, nelle strade, e nessuno oserebbe sostenere che in questo presente fatto di droni che sostituiscono le stelle, e di macchine che setacciano il DNA selezionando “la specie” non sia meglio degli stupri, pulizie etniche, malattie e catastrofi naturali. Il popolo felice si culla nell'Arca attendendo che dieci uomini e una donna fantoccio decidano della loro vita.

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