martedì 9 maggio 2017

Blog Tour: Contro ogni regola di Anna Genchi


Buongiorno Cosmo Lettori!!! Seconda tappa di questo emozionante blog tour per presentare il nuovo romanzo di Anna Genchi, CONTRO OGNI REGOLA.
All'interno del nostro post troverete l'incipit del romanzo e qualche teaser, omaggio dell'autrice.
Mettetevi comodi e gustatevi questa tappa!

Quando hai già perso tutto, non hai più nulla da perdere.
Questo è ciò che accade a David Tremblay.
Dietro di lui, vita. Davanti a lui, un buco nero. 
Ogni cosa è giusta nel suo disordine di oggi.
Oltrepassare ogni limite immaginabile, vivere in modo squilibrato sul filo del rasoio.
La fine per lui non esiste, perché l’ha già vissuta.
È già morto e rinato dalle sue stesse ceneri.
I suoi demoni lo inchiodano alla sua esistenza attuale, tenendo a freno il suo io passato.
Charlotte Leclerc ha qualsiasi cosa le serva, o almeno crede. 
Non ha mai sentito le farfalle nello stomaco, per nessuno.
La sua vita è uno schema ben preciso, un algoritmo che ha un unico risultato: raggiungere i suoi obiettivi.
Per questo motivo, alla facoltà di Design e Cultura della moda dove studia, è considerata La Fredda, quella impassibile, incapace di provare niente che non sia l’egocentrismo verso sé stessa. Almeno fino a quando la sua vita non si ritroverà alla periferia di Vancouver, precisamente allo Sweet Hollow, la società per la quale anche David lavora. 
Charlotte accetterà il suo ruolo a scatola chiusa. Sa, ma non sa davvero.

Lui proverà a proteggerla, ma chi proteggerà entrambi dai segreti intorno a loro?

Crash. 
Un rumore, uno scontro, una luce fulminante, un arrivo improvviso. Inaspettatamente tutto cambia. La vita si spacca e non ne resta nulla, solo frammenti. Piccoli frammenti sparpagliati nei ricordi. Piccoli stralci di dolcezza strappati all’amore.  
Bang. 
Un colpo, dritto in pieno petto. Uno sparo che colpisce gli organi vitali e che si mangia ogni cellula poco a poco. Come un artiglio malvagio che scava dentro e si fa strada. Un demone velenoso che intacca ogni fibra all’interno e che si insinua in ogni dove.
Boom. 
Di colpo, le tenebre. Il buio. Solo macchie scure. Niente più luce, niente più sole, niente più gioia. Il buio penetrante che riempie ogni giornata come un’enorme tenda nera che copre le finestre. La luce non trapassa più. Così è la mia anima ora.
Crack. 
Il mio cuore che si rompe. Poco a poco, lentamente. La Signora Morte che lo ha stritolato minuziosamente tra le sue mani, lasciandone nient’altro che cenere. Non sento niente, non provo niente semplicemente perché non vivo.
Nero. Tetro. Lugubre. 
Come se ti guardassi allo specchio e, nonostante i vestiti addosso, ti sentissi nudo. Smembrato di ogni certezza che credevi ti avrebbe accompagnato per sempre. Spoglio di ogni consistenza emotiva, senza più alcun appiglio al quale aggrapparti per non soffocare. Come se all’improvviso ti bendassero e tu non potessi vedere più nulla. Ti disperi, ti chiedi perché, cerchi di trovare una ragione, fino a quando il buio non fa più paura. Perché ormai ti ci sei abituato. Perché, ormai, fa parte di te.
Proprio così ho agito io. Ho lasciato che il buio mi invadesse fino a quando, nel buio stesso, ho trovato la mia strada. Una strada senza alcun ritorno. 
C’era una volta un uomo perché, adesso, non c’è più.

Vancouver, 5 maggio 2016
«Puoi avvicinarti». La poltrona di pelle è fredda sulla schiena nuda, le scariche di eccitazione arrivano dritte al mio cazzo. Seduto, guardo la ragazza bionda che si avvicina. Le scelgo quasi sempre con i capelli chiari. Ho sviluppato una predilezione per le pelli diafane da marchiare con i miei umori. 
Appoggio i gomiti sulle ginocchia e la guardo mentre, sculettando, viene verso di me. Sta cercando di mostrarsi all’altezza, ma sono certo che sia inesperta. Nuova di zecca, la caratteristica giusta per entrare nel mio letto. Solo a loro è permesso entrare nel mio appartamento.
Tutte le nuove passano di qui per essere consacrate, e a loro piace. A loro piace godere del mio possesso. Io do, loro prendono. 
«Possiamo mettere un po’ di musica?». Sghignazzo. Ora ne sono certo; non è inesperta, è totalmente incapace. Jason dovrà ascoltarmi stavolta. A che cazzo pensava quando l’ha scelta? Se non fosse bella, l’avrei già spedita fuori a calci. 
Incapace o no, stasera va male. È una di quelle sere nere, e quindi devo liberarmi di pesi opprimenti. E questo è il solo modo che ora conosco.
«Ti sembro un tipo da musica?». Si muove ancora in avanti, le gambe scheletriche sfilano sulla moquette nera.
«Mi sembri un tipo e basta». Che risposta idiota. Poverina, quasi mi dispiace per lei. 
«Non ascolto mai la musica». La liquido con un gesto della mano «Inginocchiati». Ordino imperativo, e lei esegue senza batter ciglio. 
Io parlo, lei fa. 
È tutto così meccanico, tutto sistematico. Non ci sono sensazioni, non ci sono sentieri lastricati di buone intenzioni. Niente, il nulla assoluto.
La ragazza si siede sulle caviglie, i palmi delle mani aperti sulle cosce. I capelli troppo lunghi coprono la mia visuale sul suo seno. 
La biancheria intima non lascia alcuno spazio all’immaginazione; un reggiseno a balconcino in pizzo porpora, che ho intenzione di toglierle nel giro di qualche secondo, e un tanga dello stesso colore che le ho già tolto. 
Non mi ricordo nemmeno più il suo nome. Per me non ce l’ha nemmeno un nome; è solo una delle tante.
«Cosa vuoi che faccia, David?». Solleva la testa in direzione dei miei occhi, con l’espressione di un cucciolo abbandonato. Cazzo, odio quelle così. Le donne alle quali permetto di stare tra le mie lenzuola non devono parlare, preferisco che la loro bocca si riempia di qualcos’altro. Non devono emettere fiato, non devono guardarmi con l’aria implorante. 
Le donne che entrano nel mio letto devono solo prendere, prendere il mio corpo, godere, gemere ed essere soddisfatte. Niente di più.
«Potresti semplicemente fare il tuo lavoro». Il bicchiere di vetro ondeggia tra le mie mani, il cognac che fluttua vibrante in attesa di bruciarmi la gola, lo stomaco, il dolore. Bevo sempre in queste occasioni, in realtà bevo in qualsiasi occasione, senza dare peso alla motivazione. C’è sempre un buon motivo per farsi un alcolico che mi spedisca lontano da qui, verso una terra migliore. La terra dove non si prova alcuna sofferenza. E, ora, mentre bevo tutto d’un fiato, non percepisco niente, se non impazienza di svuotare i miei istinti primordiali.
Appoggio il bicchiere sul tavolino di mogano di fianco a me, sospiro e mi sollevo in piedi, mettendo ben in mostra tutta la mia prestanza fisica.
Mi muovo verso di lei che rimane con la testa bassa, in attesa. Quando sono abbastanza vicino da impressionarla, le sfioro la testa con una mano, non in un gesto carezzevole, ma solo per fare in modo che sollevi lo sguardo. Lo fa e rimane sbalordita dalla visione del mio cazzo che pulsa in erezione, pronto per lei.  
 «Vuoi che…». Prima che me lo chieda per davvero, mi piego in avanti, zittendola. Stimolo con la punta la sua bocca che, prontamente, si apre per accoglierlo.
Lo prende con troppo garbo, così do una spinta in avanti con il culo. Voglio che goda, voglio che la solita procedura di iniziazione la veda beatamente appagata. Non voglio farle male. Non procuro violenza fisica alle donne che passano di qui. 
Prima che si imbattano nel resto, io le inizio a ciò che verrà dopo. 
I miei modi sono rudi, ma offro un servizio di raggiungimento del piacere completo. 
Prima, lentamente, infilo il pene ruotandolo sul suo palato, guidandola nei movimenti, insegnandole cosa dovrà fare.
Poi, sempre più veloce, mi muovo avanti e indietro con vigore.  
Senza scostarmi di un millimetro, le prendo le mani e le porto a coprirmi i glutei, le mie che si spostano dietro assieme alle sue in un unico gesto che mi consente di scattare in avanti a colpi serrati. Il culo si contrae tra le sue mani ad ogni botta.
La mia erezione si gonfia tra le sue labbra e devo dire che, a dispetto della sua inesperienza, la biondina si sta impegnando. Muove la lingua su e giù e lo prende, lo prende fino in fondo. 
Soffia un gemito scostante e si ferma, improvvisamente.  «David, non riesco a prenderlo di più». Okay, può andare. È abbastanza pronta per l’eventualità.
Non le rispondo; sa perché è qui. Non c’è bisogno che io le dia spiegazioni più di tanto. Le metto le mani sulle spalle, aiutandola ad alzarsi. 
«Vieni con me». Con il palmo aperto sulla base della sua schiena, la spingo leggermente in avanti con il mento rivolto verso il divano Chesterfield. «Aspettami seduta lì». Fa come le dico; va a sedersi, con lo sguardo sempre più basso e tormentandosi le mani. Mi chiedo cosa cazzo abbia accettato a fare, poi ricordo. Loro non devono accettare; loro non hanno alcuna scelta.
Vado in camera da letto, tiro fuori un preservativo dal cassetto e torno da lei, pronto. Noto con piacere che si è tolta il reggiseno, rispondendo ancora una volta ai miei comandi.
Per un attimo vorrei tirarmi indietro, dire a Jason che deve mandarla via, ma so che se andasse via, non avrebbe alcuno scampo. “Una volta dentro, non ne esci più”.
Con i denti apro la bustina e le porgo l’involucro di lattice, invitandola ad infilarmelo.
Un po’ impacciata, srotola il preservativo sul mio pene e resta immobile, in attesa che io le impartisca una nuova indicazione. Mi piace poter usare questa forma di superiorità nei confronti delle ragazze che arrivano, considerate donne poiché lo diventano subito, una volta varcata quella soglia. Devono staccarsi dal resto e avere mente e corpo focalizzati solo su un unico obiettivo: soddisfare gli uomini che chiedono di ognuna di loro.
Mi piego leggermente e la sorprendo, in una mossa che tutto è tranne che dolce. 
Le braccia l’attirano per le ginocchia, il culo le striscia sul divano prima che io mi fermi, proprio quando è posizionata sul bordo della seduta. 
Mi porto le sue gambe su ognuna delle spalle. Sono sottili, tanto da sembrare stecche da biliardo; questo le tornerà utile se dovesse aver bisogno di movimenti agili. 
Ora è aperta, esposta e pronta per il mio arnese. Prova a coprirsi, inutilmente. Afferro entrambi i polsi con una mano e li porto sopra la sua testa, avvicinandomi ancora di più alla sua apertura.
Ha lo sguardo implorante, quasi terrorizzato, eppure è rassegnata al suo destino. Sta accettando il futuro che la sorte le ha propinato, anche se riesco a scorgere una lacrima che scende sulla guancia e finisce dritta sulla pelle del divano.
«Non piangere. Non serve a molto». Una spinta decisa e sprofondo dentro di lei. Un singulto di dolore a causa della grandezza del mio pene nella sua cavità così stretta, ma nessuna parola di senso compiuto. Credo abbia afferrato il concetto. Questo è il mio ruolo, e non mi piace parlare molto.  
Resto immobile, contando nella mente. Uno, due, tre… dieci. Dieci secondi è il limite di tempo che posso dare alle ragazze per abituarsi all’invasione. Così è scritto, così mi è stato insegnato a mia volta. 
Allo scadere del decimo secondo, mi tiro indietro solo il tempo per affondare una seconda volta. Poi una terza, una quarta e un’ennesima, fin quando gli occhi della ragazza si spengono totalmente e in me non resta altro che la forza con la quale la sto crudamente penetrando.
Spinte veloci e decise che le preparino. Se può sopportare me, allora può riuscire a superare il resto. Ecco perché sono io ad iniziare le ragazze. Perché le dimensioni mi aiutano e perché, qua dentro, sono l’unico totalmente anaffettivo, l’unico uomo completamente vuoto.
La trafiggo con numerosi altri colpi prima di vederla quasi torcersi per il dolore, non so se fisico o morale, nonostante stia mugolando per la trasformazione in piacere puro. 
Velocizzo ogni botta per arrivare subito al culmine e finire con questa pratica brutale. 
Solo silenzio intorno, tranne che per il suo respiro, mentre il cazzo si gonfia fino al punto di non ritorno e scoppia in un orgasmo silenzioso, ma che mi lascia venire dentro di lei, sufficientemente soddisfatta.  
La pelle è sudata e scivolosa, i capelli ormai aderiscono al seno e gli occhi sono macchiati di rosso peccato, come l’atto che abbiamo appena concluso.
Esco, lasciandola lì a cercare di contenere i danni, e vado in bagno per liberarmi di quell’assurdo affare di gomma che mi comprime la pelle del pene. Per fortuna devo usarlo solo qui. 
Quando faccio sesso fuori dallo Sweet, posso essere libero di non usare alcun impedimento. E di farmi chi voglio.
Preparo la vasca ruotando completamente la manovella in direzione dell’acqua calda. Questa è un’altra delle regole. 
Dopo l’iniziazione, le ragazze devono potersi lavare e rilassare, cancellando la mia pratica, prima di varcare la soglia di uscita ed entrare finalmente nel nuovo mondo.
Le piastrelle a mosaico verdi e azzurre iniziano a sembrare più lucide a causa dell’acqua che scorre bollente. Il piccolo abitacolo si carica di un sano tepore, mano a mano che il calore si espande nell’aria.  
Quando l’aria è abbastanza calda per poterne godere, esco diretto verso la ragazza.
Lei è ancora lì, ferma, gli occhi rivolti verso il pavimento. Probabilmente sarà scossa, motivo per il quale mi avvicino senza spaventarla.
«La vasca è pronta. Puoi fare un bagno. E poi dovrai andare». Si alza, e per la prima volta mi guarda come se le stessi facendo un favore, come se volesse ringraziarmi nonostante tutto.
Sgattaiola via ancora nuda, offrendomi la visione del suo culo mentre si affretta a raggiungere il bagno.
Passa sempre almeno mezz’ora prima che le ragazze si affaccino nuovamente nella stanza, in una veste nuova, con uno spirito forse più pronto. Entrano che sono vittime, ed escono che sono preparate alla nuova vita.
Ciò che nessuna di loro sa, è che anch’io ho iniziato proprio come loro. Sono entrato, consapevole che non sarei voluto uscire mai più, perché uscire non aveva alcun senso.
Tic, tac. Tic, tac. Trentesimo minuto, eccola uscire. Peggio di un orologio svizzero. Si spoglia del telo, rivelando la sua figura nuda, senza più alcun pudore. Esattamente come tutte le altre.
Si riveste velocemente e, con un breve cenno del capo, si congeda lasciandomi solo.
Mi riaccomodo sulla poltrona, lo stesso posto che mi accompagna mentre bevo un altro bicchiere di cognac, come sono solito fare ogni volta che finisco.
Ogni pratica, ogni rito, ogni volta. Sempre in questa stanza, in quello che ormai è il mio appartamento. Sempre la stessa procedura, ormai da due anni.
Niente affetti, niente sensazioni, niente emozioni. Solo seguire ogni step, svolgere adeguatamente il mio compito. 
Accendo lo stereo e mi lascio cullare dalle note di una dolce melodia al violino, perché non è vero che io non ascolto più musica.
La ascoltavo tanto, molto tempo fa. Poi ho smesso. Persino le melodie più soavi mi davano fastidio. 
Poi ho ricominciato piano, a lasciarmi curare dalle note, lentamente, minuziosamente, dolorosamente. 
Muovo il capo da un lato all’altro, e ogni nota mi accarezza ridonandomi un equilibrio malato in questo gran casino.
Tutto è così giusto, nel suo disordine.
Tutto è così giusto, dopo tanto dolore.
Io sono David Tremblay, e questa è la mia nuova vita.

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